di Vanni Sgaravatti
Il progetto liberale del dopoguerra è stato un compromesso nel rapporto con i paesi non occidentali, in cui si rinunciava alla democratizzazione politica, pur considerando liberali tali paesi, a patto che il capitale potesse penetrare dovunque e a patto che non fossero comunisti.
Il progetto era quello di embedded capitalismo, cioè liberalismo vincolato in cui lo sviluppo dei mercati potesse permettere ai sistemi sociali di adattarsi per diminuire disuguaglianza, aumentare la protezione sociale e l’inclusività e contemporaneamente assicurare la pace internazionale, attraverso quelle regolazioni che non avevano funzionato negli anni ’30. Come ogni sistema, il rapporto tra mercato e sovranità politica, finalizzato a contenere sia gli eccessi del potere politico, che quelli del mercato orientato non alla continua accumulazione, ma all’inclusione e alla diminuzione delle disuguaglianze medie, andava continuamente monitorato. E fino agli anni ’80 le disuguaglianze medie planetarie sono di fatto tendenzialmente diminuite.
Ma il crollo del muro di Berlino ha contribuito a far naufragare il tentativo del monitoraggio e ad eliminare le ultime resistenze all’ordine neoliberista globale (attenzione è differente dall’ordine internazionale liberale progettato nell’immediato dopoguerra, come Vittorio Emanuele Parsi ci dice nel suo libro: “Titanic: naufragio o cambio di rotta dell’ordine liberale”). Ma, mentre è risultato evidente come i paesi ex sovietici non fossero preparati a questo cambio di rotta, non siamo stati consapevoli come lo stesso shock ed impreparazione hanno colpito i paesi occidentali, anche se ce ne siamo accorti qualche decennio dopo.
Tanto per riepilogare, parliamo dell’unione del neoconservatorismo che si è unito al neoliberismo per contestare la burocrazia statale, premendo per un allentamento di lacci e lacciuoli: una positiva revisione, se non fosse stata orientata alla deregulation, così da permettere agli eccessi del mercato di spostare gli equilibri a suo favore. E parliamo anche della pressione verso tutte le regolamentazioni internazionali che avevano assicurato una pace, almeno a livello globale, pur nella considerazione degli equilibri di forza ereditati dalla Seconda guerra mondiale (questa era Real politik, non la giustificazione per ogni decisione che si allontani dai criteri di giustizia).
Ma, di questa pressione demolitrice ne hanno beneficiato tutti, sia il capitalismo occidentale, che quello di concessione russo o cinese, utilizzato, come dimostrato dal report di Catherine Belton per la corruzione russa o per l’espansione coloniale cinese almeno fino al 2007-2008. Una crisi finanziaria occidentale (della cui gravità molti cittadini occidentali della periferia non si siamo accorti) ha indotto i cinesi a pensare che fosse meglio provare a sostituire l’egemonia dei mercati americani (di cui detenevano il 51% del debito pubblico) con la loro egemonia. E non tanto per scelta ideologica, ma per convenienza nell’assicurare la crescita e l’ordine interno cinese.
Il mercato è orientato all’efficacia ed efficienza, cioè all’utilità e al raggiungimento dei risultati, mentre la democrazia è una forma di gestione politica, che fornisce una scelta, tra quelle possibili, di regolazioni sociali e del mercato (altre sono quella istituzionalmente oligarchica, come le cinorusse) e quindi, in quanto scelta è basata sui valori ed è indipendente dal mercato. Altrimenti non ci sarebbero due ambiti da regolare, ma uno solo. Ridurre la valutazione della democrazia sulla base di parametri utilitaristici di efficacia ed efficienza, significa non aver nessun rapporto tra sottosistemi da regolare, perché ne esiste solo uno, quello del mercato. Anche se la moneta che regola le transazioni può non essere in entrambi il denaro.
Quando si sentono dire frasi come “è tutta una questione di soldi” oppure “tutto è in vendita” avvertiamo naturalmente qualcosa di amaro e cinico, ma in effetti quelle frasi esprimono esattamente la realtà che abbiamo costruito, anche se ovviamente dà fastidio sentirlo dire da quelli che hanno maggiore responsabilità nel contribuire a mantenerlo (i ricchi).
E viene il dubbio se è più l’invidia o il risentimento personale che non la voglia di cambiare le cose davvero che origina quelle critiche.
All’interno di un sistema coincidente con l’unico sottosistema: il mercato, non esiste neppure un principio di base che distingua la convenienza nell’adottare un mondo artificiale da quello umano, se non quello della fattibilità politica, cioè, in altre parole, del maggiore costo rispetto al beneficio, ma entrambi basati sul metro attuale e direttamente percepito di vantaggi e svantaggi. Vantaggi e svantaggi che, proprio perché percepiti, sono, di fatto, manipolabili, in quanto dipendenti dalla stessa cultura, che guarda caso, mercifica ogni aspetto, come quel film per bambini in cui “il nulla” si mangiava piano piano ogni aspetto della vita.
E forse sono vantaggi e svantaggi, la cui percezione, a dire il vero, dipende dalla nostra limitata capacità cognitiva di comprendere un mondo complesso, lasciando che il nostro istinto si orienti al minor spreco di energie per il massimo beneficio.
Un beneficio individuale, immediato e semmai condizionato e stemperato dalla istintiva socialità e collaborazione.
Due ambiti diversi, individuo e collettivo, che, ancora una volta devono essere (e sono) regolati da culture, credenze, valori, indipendenti da quel beneficio immediato che per molti di noi benestanti contemporanei (se in buona salute ovviamente) significa trascinarsi da una propria comfort zone ad un’altra.
Sperando che qualcuno al di fuori di noi, garantisca la disponibilità di queste zone rassicuranti, reali o virtuali che siano.
(21 agosto 2023)
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